Fu un medico di origini cremasche, Giovanni Antonio Secco, ad avviare la costruzione del primo nucleo del corpo padronale tra il 1566 e il 1576 a partire da una preesistente costruzione rurale.
Si passò così da una «domuncola» a una forma di «casa grande da statio», costituita, come mostra un antico disegno, da due piani, dalla loggia a tre fornici tuttora visibile e da due torri poste alle estremità laterali, oltre ai locali di servizio collegati alla casa. Dinanzi al fabbricato era già presente come oggi un giardino, mentre alle spalle vi erano un horto recintato e il brolo.
Nel 1769 la villa passò ai fratelli Giovanni Antonio e Francesco della famiglia patrizia Dondi dall’Orologio, i quali investirono un’ingente quantità di denaro per adeguare l’edificio al gusto dell’epoca, sia dal punto di vista architettonico che decorativo. Furono realizzati in questa fase gli stucchi policromi e le figure antropomorfe che caratterizzano tutto il piano rialzato. Tale cambiamento comportò il sacrificio del ciclo di affreschi cinquecentesco, anch’esso ricoperto da stucchi.
Dai Dondi la villa passò nel 1792 alla famiglia Camposampiero, che ne risulta ancora proprietaria nel 1822; nel 1846 fu acquistata dagli Zasio, originari di Feltre, che la mantennero fino agli anni settanta del Novecento. L’immobile fu infine acquisito dal Comune di Abano Terme pressappoco negli stessi anni in cui riceveva dal bergamasco Roberto Bassi Rathgeb (Bergamo 1911 – Padova 1972) il lascito di una preziosa raccolta d’arte. La villa fu quindi intitolata al donatore e, a partire dagli anni Novanta, si avviò il suo recupero con il restauro della decorazione interna, al fine di ospitarvi la collezione e trasformarla in un centro culturale per la cittadinanza.
Dipinti, disegni, incisioni, miniature, reperti archeologici, antiche armature, oggetti e mobili di arredo, donati al Comune di Abano quaranta anni fa da Roberto Bassi Rathgeb.
La decorazione risponde alla funzione dell’ambiente, tipicamente destinato – come ricorda Palladio – all’accoglienza degli ospiti, adatto al passeggio e al desinare. La finta architettura amplifica il motivo delle arcate e simula un secondo loggiato in forte scorcio, dal quale si affacciano servitori e musici che intonano un ideale concerto di benvenuto, mentre le altre scene e figure allegoriche invitano a rifuggire la violenza della guerra e a prediligere attività quali lo studio delle scienze e delle arti.
La lettura degli affreschi del salone è parzialmente compromessa dalle picchettature dovute all’applicazione degli stucchi, oggi rimossi, nella seconda metà del XVIII secolo.
Gli episodi figurativi, racchiusi da finte colonne scanalate di ordine ionico poggianti su un basamento marmoreo, sono stati recentemente identificati nel mito di Scylla, figlia di Niso re di Mègara, la cui sfortunata vicenda viene narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. I riquadri sulle sovrapporte invece rappresentavano, secondo una fonte settecentesca, le quattro parti del giorno: si scorgono tuttora l’Aurora su un carro trainato da galli e spargente fiori e il carro del Sole, trainato da quattro cavalli.
Entro ariosi paesaggi si riconoscono nei riquadri sulle pareti i protagonisti del mito ovidiano di Mercurio e Argo. L’immaginario classico viene così rievocato attraverso “favole” antiche che adombrano significati allegorici e intellettuali. Il paesaggio, nondimeno, abitato da rovine, castelli e città è un topos nell’iconologia della villa veneta, così come la presenza del servitore che entra da una porta è un chiaro rimando ad analoghe figure presenti nella decorazione di villa.
La stanza prende il nome dal celebre mito ovidiano rappresentato in una delle pareti, dove la ninfa Dafne si sottrae, al termine di un lungo inseguimento, alla bramosia di Apollo, tramutandosi per intervento degli dei in un albero d’alloro.
Gli affreschi della sala trattano il tema della fedeltà attraverso la vicenda dei coniugi Cefalo e Procri, il cui amore fu turbato dall’infedeltà reciproca. Del mito, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, vengono qui rappresentati i momenti di seduzione, inganno e tragedia: l’epilogo mostra la disperazione del giovane nell’aver scoperto di aver accidentalmente ucciso la moglie che, per gelosia, lo aveva seguito di nascosto durante una battuta di caccia.
Tra le cariatidi dorate, protagoniste della quadratura architettonica, trovano spazio alcune scene di caccia. La scelta del tema evoca una delle tipiche attività svolte nel contesto della villa, luogo in cui il proprietario si stabiliva per lunghi periodi conducendo uno stile di vita all’insegna degli svaghi aristocratici e dell’otium intellettuale, al quale alludono anche le tre allegorie raffigurate nelle nicchie: Letizia, Premio e Intelletto.
La decorazione di questo ambiente, che deve il suo nome agli episodi biblici qui raffigurati, è più tarda e differisce non solo dal punto di vista stilistico, ma anche tematico. Gli affreschi furono infatti realizzati intorno o dopo la metà del Seicento: al disotto di un fregio intervallato da finti drappi che ospitano cammei con figure allegoriche ed episodi mitologici, sono raffigurate tre scene della Genesi entro cornici dorate sorrette da putti e sfingi.
L’attuale oratorio, eretto nel Settecento per volere del proprietario Giovanni Antonio Dondi dall’Orologio, è situato nell’angolo sud-ovest del corpo della villa. Intitolato alla Beata Vergine di Loreto, è stato costruito come riproduzione del Santuario della Santa Casa, ripetendone puntualmente forma e dimensioni.
All’interno vi sono affreschi sacri attribuiti ad Antonio Buttafogo. Sulla parete di sinistra è presente una fessura ricavata nello spessore del muro: la lama di luce che da essa proviene colpisce, ora come allora, la zona dell’altare ogni 10 dicembre, festa della traslazione della Santa Casa.
Il complesso di Villa Bassi Rathgeb (già Secco, Dondi dall’Orologio e Zasio) rientra a pieno titolo nella tipologia della “villa veneta”, luogo dello svolgimento dell’attività agricola legato, secondo l’ideale classico, ad uno stile di vita salubre, virtuoso e all’insegna dello svago per i proprietari.
Fu un medico di origini cremasche, Giovanni Antonio Secco, ad avviare la costruzione del primo nucleo del corpo padronale tra il 1566 e il 1576 a partire da una preesistente costruzione rurale.
Si passò così da una «domuncola» a una forma di «casa grande da statio», costituita, come mostra un antico disegno, da due piani, dalla loggia a tre fornici tuttora visibile e da due torri poste alle estremità laterali, oltre ai locali di servizio collegati alla casa. Dinanzi al fabbricato era già presente come oggi un giardino, mentre alle spalle vi erano un horto recintato e il brolo.
Nel 1769 la villa passò ai fratelli Giovanni Antonio e Francesco della famiglia patrizia Dondi dall’Orologio, i quali investirono un’ingente quantità di denaro per adeguare l’edificio al gusto dell’epoca, sia dal punto di vista architettonico che decorativo. Furono realizzati in questa fase gli stucchi policromi e le figure antropomorfe che caratterizzano tutto il piano rialzato. Tale cambiamento comportò il sacrificio del ciclo di affreschi cinquecentesco, anch’esso ricoperto da stucchi.
Dai Dondi la villa passò nel 1792 alla famiglia Camposampiero, che ne risulta ancora proprietaria nel 1822; nel 1846 fu acquistata dagli Zasio, originari di Feltre, che la mantennero fino agli anni settanta del Novecento. L’immobile fu infine acquisito dal Comune di Abano Terme pressappoco negli stessi anni in cui riceveva dal bergamasco Roberto Bassi Rathgeb (Bergamo 1911 – Padova 1972) il lascito di una preziosa raccolta d’arte. La villa fu quindi intitolata al donatore e, a partire dagli anni Novanta, si avviò il suo recupero con il restauro della decorazione interna, al fine di ospitarvi la collezione e trasformarla in un centro culturale per la cittadinanza.
Dipinti, disegni, incisioni, miniature, reperti archeologici, antiche armature, oggetti e mobili di arredo, donati al Comune di Abano quaranta anni fa da Roberto Bassi Rathgeb.
La decorazione risponde alla funzione dell’ambiente, tipicamente destinato – come ricorda Palladio – all’accoglienza degli ospiti, adatto al passeggio e al desinare. La finta architettura amplifica il motivo delle arcate e simula un secondo loggiato in forte scorcio, dal quale si affacciano servitori e musici che intonano un ideale concerto di benvenuto, mentre le altre scene e figure allegoriche invitano a rifuggire la violenza della guerra e a prediligere attività quali lo studio delle scienze e delle arti.
La lettura degli affreschi del salone è parzialmente compromessa dalle picchettature dovute all’applicazione degli stucchi, oggi rimossi, nella seconda metà del XVIII secolo.
Gli episodi figurativi, racchiusi da finte colonne scanalate di ordine ionico poggianti su un basamento marmoreo, sono stati recentemente identificati nel mito di Scylla, figlia di Niso re di Mègara, la cui sfortunata vicenda viene narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. I riquadri sulle sovrapporte invece rappresentavano, secondo una fonte settecentesca, le quattro parti del giorno: si scorgono tuttora l’Aurora su un carro trainato da galli e spargente fiori e il carro del Sole, trainato da quattro cavalli.
Entro ariosi paesaggi si riconoscono nei riquadri sulle pareti i protagonisti del mito ovidiano di Mercurio e Argo. L’immaginario classico viene così rievocato attraverso “favole” antiche che adombrano significati allegorici e intellettuali. Il paesaggio, nondimeno, abitato da rovine, castelli e città è un topos nell’iconologia della villa veneta, così come la presenza del servitore che entra da una porta è un chiaro rimando ad analoghe figure presenti nella decorazione di villa.
La stanza prende il nome dal celebre mito ovidiano rappresentato in una delle pareti, dove la ninfa Dafne si sottrae, al termine di un lungo inseguimento, alla bramosia di Apollo, tramutandosi per intervento degli dei in un albero d’alloro.
Gli affreschi della sala trattano il tema della fedeltà attraverso la vicenda dei coniugi Cefalo e Procri, il cui amore fu turbato dall’infedeltà reciproca. Del mito, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, vengono qui rappresentati i momenti di seduzione, inganno e tragedia: l’epilogo mostra la disperazione del giovane nell’aver scoperto di aver accidentalmente ucciso la moglie che, per gelosia, lo aveva seguito di nascosto durante una battuta di caccia.
Tra le cariatidi dorate, protagoniste della quadratura architettonica, trovano spazio alcune scene di caccia. La scelta del tema evoca una delle tipiche attività svolte nel contesto della villa, luogo in cui il proprietario si stabiliva per lunghi periodi conducendo uno stile di vita all’insegna degli svaghi aristocratici e dell’otium intellettuale, al quale alludono anche le tre allegorie raffigurate nelle nicchie: Letizia, Premio e Intelletto.
La decorazione di questo ambiente, che deve il suo nome agli episodi biblici qui raffigurati, è più tarda e differisce non solo dal punto di vista stilistico, ma anche tematico. Gli affreschi furono infatti realizzati intorno o dopo la metà del Seicento: al disotto di un fregio intervallato da finti drappi che ospitano cammei con figure allegoriche ed episodi mitologici, sono raffigurate tre scene della Genesi entro cornici dorate sorrette da putti e sfingi.
L’attuale oratorio, eretto nel Settecento per volere del proprietario Giovanni Antonio Dondi dall’Orologio, è situato nell’angolo sud-ovest del corpo della villa. Intitolato alla Beata Vergine di Loreto, è stato costruito come riproduzione del Santuario della Santa Casa, ripetendone puntualmente forma e dimensioni.
All’interno vi sono affreschi sacri attribuiti ad Antonio Buttafogo. Sulla parete di sinistra è presente una fessura ricavata nello spessore del muro: la lama di luce che da essa proviene colpisce, ora come allora, la zona dell’altare ogni 10 dicembre, festa della traslazione della Santa Casa.